
L’arte della fotografia come supporto al trauma
La vita di ognuno di noi è esposta ad eventi traumatici.
Il trauma si può definire come l’esperienza che è in grado di lacerare il senso di continuità della nostra esistenza. Durante e dopo l’esperienza traumatica, non siamo in grado di integrare le nostre emozioni con i nostri pensieri, le nostre paure con ciò che realmente è accaduto, il “prima” e il “dopo”.
Il fallimento di questa integrazione, secondo molti studiosi, comporta l’instaurarsi di alcune sintomatologie, tra cui il Disturbo Post Traumatico da Stress. Nel trauma tutto si blocca, noi ci blocchiamo, le nostre emozioni si bloccano, come fossero impresse su di un’istantanea.
Ed è paradossale e sorprendente come proprio un’istantanea possa sbloccare il flusso delle nostre emozioni e della nostra esistenza.
Ma come si inserisce l’arte della fotografia nel processo terapeutico?
Ogni foto che scattiamo e conserviamo, diventa parte della nostra memoria. Sono lì i luoghi e le persone con cui abbiamo condiviso i nostri momenti e le nostre emozioni. Se mettessimo insieme tutte le foto che conserviamo, di fatto, esse ci parlerebbero del percorso della nostra vita, di dove siamo stati, dei luoghi che abbiamo respirato, delle persone che abbiamo amato.
Perciò, il vero senso di una fotografia, risiede proprio nell’aspetto simbolico, nella capacità di evocare e suscitare nella mente di chi l’osserva emozioni e riflessioni.
Proprio grazie a questa grande funzione, le foto possono essere utilizzate come un “ponte” da percorrere per esplorare ad accedere ai propri sentimenti e ricordi, spesso per molto tempo messi a tacere. La fotografia è dotata di “profondità abitata”, in essa ci sono infatti storie, memorie ed emozioni (Marra, 1990).
La macchina fotografica sembra avere il dono di soddisfare l’esigenza di ogni individuo di rapportarsi agli altri, al mondo e a se stesso, rapporti nei quali non è sempre facile trovare il giusto equilibrio.
Il primo ad applicare la fotografia alla salute mentale fu Hugh Diamond, fotografo e psichiatra nel manicomio del Surrey County Lunatic Asylum. Egli fotografò i suoi pazienti utilizzando inizialmente gli scatti come strumento diagnostico. Successivamente scoprì come, le foto che venivano fatte osservare dagli stessi pazienti, avessero un effetto terapeutico positivo: i pazienti divenivano consapevoli della loro identità e stimolati a prestare attenzione al loro aspetto fisico, con ricadute positive nella cura di loro stessi e del loro livello di autostima.
“Vedere se stessi è quindi un’esperienza intensa di consapevolezza che permette di far entrare il nuovo in un’immagine consolidata di sé e della propria storia personale. In una fotografia il senso del rivedersi ingloba al suo interno un <lì e allora> carico di ricordi, evocazioni ed emozioni sedimentate” ( Rossi, 2009).
Le potenzialità terapeutiche dell’uso della fotografia sono state visibili fin da subito, ma solo ultimamente hanno ottenuto un riconoscimento ufficiale, avvenuto grazie al lavoro di artisti e psicoterapeuti. I primi fra tutti furono il dottor Oliviero Rossi, direttore delle riviste “Formazione in Psicoterapia e Counseling Fenomenologia” e “Nuove Arti Terapie”, e il dottor Carmine Parrella, coordinatore del Laboratorio di Fototerapia, attivo presso l’ASL2 di Lucca nonché ideatore delle tecniche di VideoBiografia, VideoDilemma e VideoTraining (www.nuoveartiterapie.net).
Di fatto, gli scatti fotografici, sembrano fare dei veri e propri miracoli là dove non riesce ad accedere ed esprimersi la parola. Spesso il dialogo all’interno del setting terapeutico si interrompe, arrancando tra ricordi dimenticati o rimossi. È quì che le immagini diventano il veicolo per raccontarsi, per ammettere agli altri e a noi stessi ciò che non riusciremmo a concederci con le parole (www.repubblica.it).
Le tecniche di fototerapia ed il Photovoice, utilizzano gli scatti proprio come strumento per catalizzare pensieri ed emozioni del paziente nella comunicazione terapeutica. L’abilità del terapeuta risiede nell’incoraggiare e sostenere il paziente nel suo percorso di crescita personale mentre esplora e interagisce con le sue foto, scattate con lo smatphone o impolverate negli album di famiglia (www.phototherapy-centre.com).
Il Photovoice è una tecnica sviluppata da una ricercatrice statunitense negli anni ’90 (Wang, 1999). Inizialmente aveva lo scopo di permettere alle persone di identificare punti forza e problematiche della comunità in ci vivevano e di favorire lo scambio di opinioni attraverso gruppi di discussione volti a favorire l’empowerment della comunità stessa. L’utilizzo del Photovoice come vera e propria tecnica terapeutica è avvenuto nello studio di Rolbiecki e collaboratori (Rolbiecki, Anderson, Teti, Albright, 2016). All’interno di questa ricerca, a nove donne che nella loro vita avevano subito violenza sessuale e riportato la sintomatologia tipica di disturbi post-traumatici, sono state fornite delle fotocamere. Il loro compito era quello di scattare delle foto che rappresentassero l’essenza della violenza che avevano subito e il successivo percorso di recupero dal trauma. Inoltre le donne avevano la possibilità di incontrarsi settimanalmente per discutere sulle emozioni scaturite dal confronto con quanto emerso dalle foto. Al termine di questi incontri, le partecipanti hanno potuto lavorare insieme all’allestimento di una mostra fotografica volta alla sensibilizzazione della comunità sul tema della violenza che avevano subito.
Questo studio rappresentò per le nove donne un modo di mettersi in discussione, di verbalizzare i propri sentimenti e pensieri circa il trauma, all’interno di un setting terapeutico che rappresentasse una “base sicura”. Secondo i ricercatori, questa tecnica, è stata in grado di incrementare l’efficacia dei trattamenti tradizionali per affrontare gli eventi traumatici, fungendo da supporto per quanto riguardava la gestione dei sentimenti di impotenza che frequentemente le vittime di traumi riportano. La tecnica, nello specifico, permetteva che tali sentimenti di impotenza venissero ri-attribuiti all’esperienza in sé, al contesto, piuttosto che a livello personale. I risultati hanno inoltre dimostrato un’importante riduzione dei sintomi del disturbo post traumatico e un aumento degli indici di crescita post-traumatica, in particolare nella percezione di sé come efficace, coraggiosa e forte.
“Se conservi la mia fotografia, vuol dire che mi tieni ancora nel cuore” (Weiser, 2013).
E, nel trauma, è essenziale tenere nel cuore e voler bene soprattutto a noi stessi.
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